Prova di forza.

Siviglia è una pietra preziosa incastonata nella corona di Spagna. Elegante e sofisticata, la città svela tutta la sua femminilità nelle maioliche che arredano i cortili interni, dove superbe fontane lasciano scorrere l’acqua mentre passa il tempo. Siviglia è una città di cui ho studiato la storia nel periodo universitario e la Spagna è una terra che sento vicina da sempre, visto che proprio nell’assolata penisola iberica affondano le radici della famiglia d’origine di mia madre.
Eppure è proprio questa terra, che tanto amo, che mi ha messo alla prova come nessun altra.
Due anni fa qui ho vissuto un vero e proprio incubo.
L’anno è il 2010. A gennaio parlo con Devid e decidiamo che è l’anno della Spagna. Perciò, a metà marzo, partiamo in automobile con destinazione Siviglia. L’idea è quella di un mese da trascorrere immersi nella storia e nella bellezza di questa perla dell’Andalusia. La scelta dell’automobile è dettata da un unico grande problema: Francesco ha da poco debellato due otiti, e questo rende impossibile il volo aereo.

Quanto l’ho sognata questa città! Duemila chilometri ci separano dal centro nevralgico della Storia spagnola, così bella e carica di avvenimenti. Nessuno ti parla dei pirati come gli Spagnoli, che li affrontarono come acerrimi nemici. Questa è la terra del Siglo de Oro, della regina Isabella di Castiglia, la terra da cui partì Cristoforo Colombo con le tre caravelle. E tutto questo esercita su di me un fascino straordinario.

Ma arrivati a Barcellona, Federico contrae un virus che non gli permette di camminare. Quando si muove sembra un piccolo robottino, dai gesti meccanici. Mancano ancora mille chilometri a Siviglia. Impossibile pensare di portare il piccolo in automobile.
Va bene. Con Devid ci sediamo a tavolino e ragioniamo. La decisione è unanime: io prenderò l’aereo che da Barcellona porterà me e i bambini a Siviglia – ormai l’otite ha fatto il suo corso – mentre Devid percorrerà il resto del viaggio da solo, per raggiungerci nel capoluogo dell’Andalusia il giorno dopo. Ma al momento di prenotare i biglietti constatiamo che Spain Air non permette di viaggiare a chi, come me, non ha la carta di credito. Il titolare della carta – Devid in questo caso – deve essere infatti presente al momento dell’imbarco, per evitare truffe.
Ok. Dobbiamo cambiare strategia.
Scartato l’aereo veniamo a conoscenza dell’esistenza di un treno che la notte percorre Barcellona – Siviglia e pensiamo che sì, è la soluzione corretta. Devid allora vola in stazione alla velocità della luce, ma quando mi chiama la notizia è sconfortante: il costo del biglietto è alto e c’è una sola cuccetta. Non ci rimane che prendere o lasciare.
“Va bene, compriamolo. Non abbiamo alternativa” rispondo al telefono.
Devid riaggancia e va ad acquistare il biglietto. Ma due minuti dopo mi richiama per dirmi che è già stato venduto.
Credo di aver detto qualcosa di poco carino. Anzi, ne sono certa.
Percorriamo un’altra strada. L’ultima che ci rimane, mentre guardiamo Federico camminare come Robocop. Devid, che ha la carta di credito, prenderà l’aereo con Federico mentre io percorrerò i chilometri restanti con il piccolo Francesco, di undici mesi.
Un’idea giusta pensiamo. Scopriremo poi di aver avuto l’idea meno brillante che due esseri pensanti possono realizzare nell’arco di una vita.

La mattina successiva saluto Federico e Devid che prendono il volo per Siviglia. Con il sorriso sulle labbra abbraccio Francesco e mi preparo a partire per percorrere i mille chilometri che mi separano dalla città andalusa. Ce la posso fare, penso. Se ho partorito, guidare è il meno che io possa fare.
A disilludermi ci pensa il piccolo Francesco che, dopo un’ora di viaggio, inizia a piangere. Intorno a me vedo solo autostrade e panorami mozzafiato, che possono piacermi sì, ma non consolano il piccolino, stanco del viaggio. Accosto in autostrada e scendo per abbracciare il bimbo. Con il vento che mi sferza la faccia coccolo il piccolino che presto smette di piangere. I camionisti filano veloci, osservando quello spettacolo insolito, a lato della carreggiata.
Riparto serena, ma devo fermarmi in continuazione per tranquillizzare il piccolino che non ha nessuno accanto che lo distragga dal viaggio.
I miei nervi cominciano a cedere. Mentre percorro i chilometri che mi separano da Siviglia entro nella Sierra Nevada di cui non conosco nulla. Forse se avessi saputo che qui giravano i film western, qualche dubbio sul mio percorso me lo sarei fatto venire… In breve, lungo l’autostrada siamo solo in cinque: io, Francesco, un camionista che mi suona quando ci superiamo vicendevolmente, un cactus simile a quello dei fumetti e un sole gigantesco che con i suoi raggi infuocati surriscalda la terra.

A Murcia decido di fermarmi in un hotel e di passare la notte con il piccolino. Grazie a Dio la colazione è prevista fin dalle cinque del mattino, così quando riparto ho in borsa una gran scorta di latte, biscottini, marmellatine varie e miele.
Tutto per il piccolo Francesco.
Le mie attenzioni sono concentrate su di lui, che non deve soffrire l’infortunio del fratello.

La partenza è buona, ma dopo due ore devo fermarmi per fare benzina.
Prendo una deviazione dell’autostrada che indica un distributore appena fuori dal rettilineo. Ma quando svolto mi trovo davanti ad una pompa di benzina costruita sotto una piccola collina, adibita a cimitero. Siamo io, il benzinaio e Francesco, più un centinaio di cadaveri sepolti sotto croci di pietra bianca. La Sierra Nevada è così: un luogo isolato dal mondo, dove rocce prepotenti e scavate disegnano un paesaggio incantevole che richiama in modo evidente il Far West. Ci sono i cactus, a volte piccoli alberelli immersi in un silenzio surreale e un colore arancione che domina l’orizzonte con sicurezza ed eleganza.
“Quanto manca a Siviglia?” chiedo al benzinaio.
Lui mi fa capire che la strada è lunga ancora 400 chilometri.
Riparto con i nervi a pezzi e il piccolino che sorride, perché le canzoni dello Zecchino d’Oro lo tengono allegro. In compenso io ne ho fin sopra i capelli del Caffè della Peppina e di quella stronza della Figlia del Re di Siviglia, che a sentire i giovani cantori non era neppure una gran meraviglia.
In quel lungo tragitto devo fermarmi almeno altre otto volte, sempre e costantemente a bordo dell’autostrada per cullare il piccolino, mentre uno o due camion passano a tutta velocità lungo l’asfalto andaluso. Se mi si fosse bucata una gomma, non so cosa sarebbe successo. E in poche ore ho misurato tutta la mia fragilità di essere umano. Quella strana sensazione che ti porta a toccare con mano i tuoi limiti, le tue fragilità emotive, quell’essere così sulla corda. Sbaglio persino strada, ma ho tutti i sensi in allerta ed io che mi sono persa in un ristorante con una sala unica (non trovavo più l’uscita…) mi ritrovo a comprendere, sa Dio come, lo spagnolo e le indicazioni stradali di un uomo che mi guarda con gli occhi fuori dalla testa. Ho il navigatore certo, peccato che la batteria non funzioni a causa di un microscopico anellino di ferro che impedisce il contatto con la parte elettrica dell’automobile.
Passano ancora diverse ore prima che le indicazioni stradali mostrino la scritta “Sevilla”. Ore lunghe ed interminabili durante le quali non solo ho misurato i miei limiti, con il piccolo che piageva mentre guidavo, ma anche la gentilezza degli spagnoli che cercano di consolarmi quando varco la porta di un autogrill, mi indicano con molta pazienza la strada, mi parlano di Provvidenza (credo siano tra le persone più religiose che io abbia mai incontrato).
In compenso io sono a pezzi e ho solo voglia di piangere.
Chiamo Devid, lo avviso che sto per alzare bandiera bianca, per la prima volta in tutta la mia vita.
Lui ride. E io capisco in un solo istante perché hanno inventato il divorzio.
“Devid, mancano 60 chilometri a Siviglia e Francesco è in preda ad una colica renale. O vieni a prendermi con un taxi, o io resto qui in automobile nella prima piazzola di sosta”.
Devid capisce il problema. Si accorge che la mia voce non è quella sicura di sempre. E decide allora di cambiare approccio. Mi rassicura con parole di tenerezza, cerca di tranquillizzarmi, di dirmi che sono arrivata, che manca davvero poco. Ma io piango perché mi sento in crisi, senza forze. Mille chilometri con la responsabilità di un bimbo piccolo, in un luogo sconosciuto che ricorda il deserto. E un unico pensiero che mi sfiora la mente: “Come fanno le donne sole?”
Come fanno le mamme che devono prendersi cura dei piccolini senza un compagno che le aiuti? Come fanno quelle donne che devono lavorare, accudire i figli, amarli senza riserve, in una solitudine grande come il mondo? Che grande stima che ho per loro!

Quando arrivo a Siviglia mi sembra di essere uscita da un incubo. Accosto al primo distributore e mentre si avvicina il benzinaio io scendo per baciare terra. Bacio l’asfalto. Davvero. Con un senso di compiutezza provato poche volte prima. Nessun esame universitario, nessun viaggio, nessuna prova al di là del parto e dei primi quaranta giorni dopo la nascita del primo figlio, mi era sembrata tanto dura. Perché ho sentito forte la responsabilità verso un’altra persona. Perché ho toccato le mie fragilità. E perché ho capito che ci sono davvero dei momenti nella vita in cui la sorte dipende da chi trovi sulla tua strada. Una mano tesa, un biberon di latte scaldato alle cinque di mattina da una cameriera gentile, una parola di conforto. In Spagna ho appreso il valore del pianto, a volte così utile e liberatorio. Ho usato la mia forza per mostrare non la mia capacità, ma le mie debolezze, liberatesi in un “Aiutatemi, non ce la faccio più”. Ho osservato le persone di un altro popolo muoversi per soccorrermi come riuscivano, senza troppe spiegazioni, senza troppi “ma” e “perchè”. E il giorno dopo, mentre mi trovavo in un piccolo negozio della città andalusa per l’acquisto di una maglietta, la proprietaria del negozio ha regalato al piccolo Francesco un omino intessuto con del filo arancione. Ecco, questo piccolo omino ora è da due anni un ospite speciale in casa mia. Mi ricorda che anch’io ho avuto bisogno di qualcuno. E che per aver ricevuto tanto, ora devo donare altrettanto.

Grazie Spagna. Anche se spero tu perda la finale degli Europei!

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